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Month: June 2024

🚩|| 𝐑𝐀𝐃𝐈𝐎 ® 𝐏𝐀𝐍𝐓𝐄𝐋𝐋𝐄𝐑𝐈𝐀 || 🚩 Ritrovamento di strumento per la raccolta del corallo

Grazie alla segnalazione del responsabile del Diving Club Cala Levante di Pantelleria, Francesco Spaggiari, la Soprintendenza del Mare, guidata da Sebastiano Tusa, ha effettuato nel 2010 un ritrovamento ritenuto “di grande interesse archeologico nelle limpide acque di Cala Levante a Pantelleria”. Ad una profondita’ di circa 23 metri, su un fondale sabbioso e’ stato rinvenuto un elemento a prima vista assolutamente incomprensibile costituito da un trave ligneo inserito in una semisfera di piombo del diametro di circa cm 50. Analizzandolo con attenzione si sono individuati gli agganci al trave centrale di due elementi di ferro ortogonali tra loro posti rispettivamente al di sopra e al di sotto della semisfera di piombo. Ad una prima analisi sembra probabile che si tratti di uno strumento utilizzato per la raccolta del corallo, molto simile alle ”ingegne” o croci di Sant’Andrea utilizzate fino in tempi recenti per la rovinosa raccolta del corallo nei nostri mari. Questo strumento sembra piu’ elaborato poiche’ costituto da un elemento ligneo su cui fusero la semisfera che faceva da peso per fare aderire bene al fondo i bracci incrociati che fuoriuscivano dal trave centrale. Il piu’ antico strumento per la raccolta del corallo Si tratta del piu’ antico strumento per la raccolta del corallo mai rinvenuto nelle acque della Sicilia. Rinvenimenti di simili oggetti sono avvenuti soprattutto in Sardegna e sulla costa mediterranea della Francia. Il rinvenimento conferma l’ipotesi che la ”croce di Sant’Andrea” usata fino in tempi recenti affondi le sue radici in epoca romana o addirittura ellenistica. Il nostro esemplare, tuttavia presenta una maggiore accuratezza nell’esecuzione e potrebbe rappresentare un’evoluzione di epoca tardo romana di quanto era stato precedentemente inventato. Che la raccolta del corallo fosse una delle attivita’ principali nell’economia marittima di epoca romana ce lo afferma con dovizia di particolare anche Plinio.

🚩|| 𝐑𝐀𝐃𝐈𝐎 ® 𝐏𝐀𝐍𝐓𝐄𝐋𝐋𝐄𝐑𝐈𝐀 || 🚩 Breve lessico pantesco

“dammuso” indica la casa, l’abitazione. Altra denominazione del dammuso è “locu”, “locu”, voce siciliana, la cui origine palesamente latina, locus, risale al periodo in cui i siciliani, sudditi dell’impero d’oriente, sbarcarono a Pantelleria a seguito dell’occupazione bizzantina. Con questo ultimo termine, locu, si indicava nell’antichità, la casa sita nei centri urbanizzati (Scauri, Tracino, Khamma), mentre con la voce dammuso, si indicava l’abitazione di campagna Due sono i tipi di dammuso: a pietra “rutta” cioè a pietra grezza e lo spessore dei muri va da 1 a 2 metri. a pietra “tagghiata” cioè a pietra squadrata. I dammusi in pietra squadrata, le cui mura hanno uno spessore di 40-90 cm., si trovano negli agglomerati urbani di Khamma, Tracino, Scauri ecc. ed hanno intonaci esterni tinteggiati color pastello o semplicemente imbiancati Nei dammusi rurali lo spessore dei muri va da 1 a 2 metri. Quando venne usata la pietra tagliata e si conobbe la calce, lo spessore dei muri si ridusse a 40 cm. e le pietre murate in unica fila vennero concatenate con la calce e la terra. I muri esterni, prima inclinati, vennero edificati a piombo, l’altezza dei due tipi di dammuso si aggira sui 4 metri, cupole escluse. Nei dammusi vi sono tante cupole quante sono le stanze. Quasi mai intonacati all’esterno, mostrano le pietre scure a faccia vista senza che le connessure vengono stuccate con malta di calce o pozzolana. Poche le aperture e di piccole dimensioni, per combattere il freddo e il caldo, anche se il dammuso è una costruzione termo-regolata ed acusticamente protetta per i suoi materiali lavici e per le dimensioni dei muri e dello spessore delle volte. Solitamente si accede al dammuso, che è di forma rettangolare, attraverso un viottolo erboso e ad accoglierti vi è: “u passiaturi, u pirterra”, cioè una terrazza dal pavimento di balate o di coccio dotato di comode “ducchene” ossia di sedili in pietra mattonati e con spalliere Nel “Passiaturi” c’e’ “a vucca da isterna” Sulla terrazza si affacciano, il più delle volte, “gli occhi d’archetti”, cioè due archi a tutto sesto di un ambiente luminoso con tre porte, due frontali ed una a sinistra di chi vi accede e che immette in cucina, il cuore della casa di un tempo, perchè si svolgeva la vita di tutta una giornata di lavoro e radunava di sera la famiglia attorno al tavolo. Nella cucina spaziosa, davanti alla finestra, ricoperti di mattonelle di maiolica e di solito, “u furnu” per il buon “pane di casa“. Generalmente il forno si trova o accostato al dammuso o dentro un vano, accessorio cucina. Accanto alla cucina, dove vi è sempre un armadio a muro con o senza porta “u stipu a muro” vi è un magazzino “u macaseno” deposito di malaga, bionda, carne di maiale, provviste invernali e vino (la moderna dispensa). Il soffitto della cucina, del magazzino e delle altre stanze è a volta. Diversi sono i tipi di volta: a botte, a capanna, a crocera, a vela, con lunette e a volta reale. La volta a botte è la più antica e scarica il peso sulla muratura longitudinale, è leggermente arcuata per permettere all’acqua piovana di raccogliersi e di defluire nella cisterna. Variante del tetto a botte il tetto a capanna, tipico delle chiesette di campagna. Fino al secolo XVII si costruirono questi due tipi di volte. Con l’avvento della calce si realizzò la copertura a cupola, a crocera, a vela e a lunetta. La volta reale, che scarica il suo peso lungo tutto il perimetro della costruzione, è formata da quattro spicchi che convergono in un unico punto centrale della stanza. La volta a lunetta geometricamente più complessa, scarica il suo peso agli angoli dell’edificio. E’ formata da più spicchi impostati su quattro archi, nel loro andamento regolare verso il centro formano una ricca composizione di linee. Dato rilevante di un dammuso è il pavimento che in tempi antichissimi era di terra cotta dalle dimensioni 20×20, in quelli meno antichi di maiolica. Sulla porta, in alto, del dammuso fra l’arco e l’asse di legno, la “sardetta”, un piccolo ripostiglio per riporre cibo o arnesi. Nel dammuso, in un posto nascosto, il pantesco riponeva il denaro e gli oggetti d’oro. Siamo di fronte alla “truvatura” una vera cassaforte. Era abitudine tenere il denaro anche sotto un mattone del pavimento. Lasciamo la cucina e passiamo nella sala dalla quale si va, attraverso la porta, negli archetti, cioè nell’ambiente spazioso e illuminato a giorno. Dalla sala si va anche nella “Kammara” ambiente spazioso e illuminato a giorno. “Arkova” è un piccolo nido d’amore dove trova sistemazione solo il letto matrimoniale. Camera da letto dall’arco a tutto sesto e dal soffitto più basso rispetto agli altri, priva di finestra “cammarino”, una seconda stanza da letto priva di finestra “cantaru”, per i bisogni notturni nel dammuso non c’era bagno, di giorno di andava sotto un albero Poco distanti dal dammuso sorgono per gli animali piccoli costruzioni dai muri a secco e dal soffitto a volta: “U sarduni” per l’asino o il mulo; “U ghirbeci” per la capra; “U zacchinu” per il maiale; “U gaddrinaru” per le galline “A cunigghiera” per i conigli Adiacenti al dammuso: “U vagnanu” cioè l’orto “L’aira” di forma circolare, aveva nel suo centro un palo per sostenere un legno che veniva legato all’asino bendato per la trebbiatura “U stinnituri” di forma rettangolare racchiude uno spazio in terra battuta, protetto dal lato più lungo da un alto muro a secco e lateralmente da due muri inclinati. Nello stenditoio si dispongono ancora oggi i grappoli di zibibbo per farli essiccare al sole onde ottenere la malaga, necessaria per la produzione del passito di Pantelleria. Si dispongono anche i grappoli di zibibbo già immersi nella soluzione bollente di acqua e potassa per avere la bionda. Per tale motivo vicino allo stenditoio c’e’ il fornello fatto di pietre murate con taio (fango). Accanto al dammuso: “U Jardinu” cioè il giardino, di forma cilindrica e dai muri a secco. La sua paternità secondo il notaio D’Aietti

🚩|| 𝐑𝐀𝐃𝐈𝐎 ® 𝐏𝐀𝐍𝐓𝐄𝐋𝐋𝐄𝐑𝐈𝐀 || “Pantelleria, uno scrigno di biodiversità”

A dispetto dell’assenza di sorgenti Pantelleria è un’isola Giardino che è scrigno di biodiversità. Fenici, saraceni, arabi, bizantini, che nell’Isola hanno vissuto, hanno lasciato testimonianze indelebili nell’isola, battezzata Bent el Riah ovvero “figlia del vento”. Un vento che, insieme alla scarsità – più vicina all’assenza – di risorse idriche ha esortato i panteschi a realizzare tecniche e accorgimenti per preservare il territorio e garantire la sopravvivenza sull’Isola. A renderla così fertile è stato, col passare dei secoli, il lavoro degli uomini che l’hanno abitata con l’aiuto della sua natura vulcanica, del gioco delle correnti umide e dei dammusi, le abitazione tipiche dell’Isola più vicina alla Tunisia, dalla quale dista 65 chilometri, che alla Sicilia distante 110. L’acqua che rende fertile e verde Pantelleria, infatti, è quella raccolta nelle cisterne collegate ai tetti tondeggianti e lisci dei dammusi, il più importante lascìto degli arabi, sui quali l’umidità della notte si condensa. Pantelleria e la biodiversità Dalla macchia mediterranea alle foreste della Montagna Grande, dalle orchidee alle erbe medicinali, Pantelleria è un tripudio di colori e profumi. Pantelleria è uno speciale ecosistema nel cuore del Mediterraneo. Un’isola vulcano che custodisce un patrimonio naturalistico unico per varietà e biodiversità, oggi protetto come Parco nazionale. A metà strada tra la Sicilia e le coste nordafricane, la sua storia millenaria ha portato fino ai nostri giorni un caleidoscopio di colori e profumi. Lungo i sentieri del Parco si può ripercorrere ed entrare in contatto con questa storia millenaria. Nel parco sono presenti ben 63 specie rare e 13 endemiche. Tra queste ultime, ben due specie di Limonio sono visibili sulla riva del Lago Specchio di Venere e – lungo la costa – tra Arenella e Punta Tre Pietre, mentre la Serapias cossyrensis, un’orchidea, compare a partire da una quota di 300 metri fino agli 836 della Montagna Grande. Pantelleria riserva sorprese anche agli appassionati di erbe medicinali. Crescono infatti spontaneamente lungo i sentieri e nei campi tre varietà di camomilla – Anthemis Nobilis, Anthemis Arvenis e Anthemis Secundiramea – e il tarassaco, con le classiche foglie a dente di leone, utilizzato nella tradizione pantesca per le proprietà diuretiche. Nei 6500 ettari del parco, l’isola preserva una varietà di specie vegetali e di ecosistemi che è unica nel Mediterraneo.

🚩|| 𝐑𝐀𝐃𝐈𝐎 ® 𝐏𝐀𝐍𝐓𝐄𝐋𝐋𝐄𝐑𝐈𝐀 || 🚩 “La vite ad alberello e l’agricoltura eroica dei panteschi”

Il 26 novembre 2014 a Parigi l’UNESCO ha dichiarato la “Pratica agricola della coltivazione della vite ad alberello, tipica dell’isola di Pantelleria”, patrimonio immateriale dell’umanità. Il riconoscimento è stato approvato all’unanimità da tutti gli Stati parte dell’UNESCO. e si tratta della prima pratica agricola al mondo ad avere ottenuto questo prestigioso riconoscimento. Tale riconoscimento ha premiato i sacrifici eroici del popolo pantesco che sfida condizioni ambientali estreme, legate alla costante presenza dei venti e alla scarsa piovosità, compensata da una forte umidità. Grazie alla dedizione dell’uomo si ottengono frutti straordinari, unici. Nel susseguirsi delle generazioni, è stato possibile perfezionare pratiche di resistenza alla fatica, di cura delle piante, di adeguamento alla varietà del suolo, che sono la forza della cultura rurale pantesca. Lo stesso vitigno coltivato in Sicilia o in altre parti dell’italia produce uva ben diversa sia per sapore che per consistenza, il tutto dovuto alla combinazione “terra, sole, mare, condizione climatiche e ambientali”. Nella stessa isola il prodotto è diverso da contrada a contrada e da appezzamento ad appezzamento di terreno. Le uve qui assumono delle connotazioni uniche grazie agli sbalzi termici tra il giorno e la notte, grazie al suolo e la magnifica luce che pervade ogni cosa Popoli diversi ma uguale scelta di vita: agricoltori e non marinai Gli uomini che nei millenni sono sopraggiunti su quest’isola al centro del Mediterraneo nel Canale di Sicilia, Sesioti, Fenici, Cartaginesi, Romani, Bizantini e Arabi, Spagnoli sono tutti diventati agricoltori, sviluppando tecniche agronomiche particolari ed uniche per preservare le coltivazioni e consentire la loro stessa sopravvivenza. La vite la cui presenza sull’isola è millenaria fu introdotta dagli Arabi ma non per produrre vino ma per l’appassimento e come uva da tavola. Coltivazione della vite ad alberello La vite, nella forma dell’alberello pantesco, viene coltivata in conche profonde circa 20 cm, utili per accumulare l’acqua piovana e proteggere i grappoli dal vento. La tecnica di coltivazione, introdotta dai fenici, è particolarmente articolata e prevede esclusivamente l’intervento della mano dell’uomo, fino alla vendemmia che comincia a fine di luglio. Le uve zibibbo, ricavate da questi vigneti, rappresentano la materia prima per la vinificazione del pregiato Passito di Pantelleria. Ulivi striscianti grandi come una casa Gli ulivi a Pantelleria vengono coltivati in un modo unico al mondo, sono striscianti cioè le branche toccano il suolo per sfuggire al vento che soffia sempre a Pantelleria e grandi come una casa. Questo vuol dire che le olive non possono essere raccolte neppure con le reti ma una ad una! La varietà di olive sono la Biancolilla, che si presta a essere allevata in questo modo, la vecchissima Giarraffa presente dal periodo arabo e poi nell’ottocento innestata soprattutto a Biancolilla, la Nocellara, famosa come oliva da mensa ma che garantisce un olio straordinario e, soprattutto, olivastro i cui frutti sono piccolissimi. La miscela garantisce stabilità all’olio. Così come l’alberello della vite, l’albero di ulivo viene fatto crescere basso per impedire al vento di distruggere la fronda. Per far ciò vengono “impiccate” le pietre ai rami, in altre parole i contadini legano i rami a pietre che spingono i rami verso il basso, obbligandole ad allargarsi in modo strisciante sul terreno. I capperi di Pantelleria Una testimonianza di agricoltura difficile ed eroica, insieme alla coltura della vite ad alberello, è quella dei Capperi di Pantelleria. Conosciuto sin dall’antichità, ne parlano infatti già autori come Dioscoride e Plinio, nell’isola vulcanica al centro del mediterraneo il cappero ha trovato il suo habitat ideale. La pianta di Cappero è un alberello che, dalla primavera all’autunno, produce i capperi lungo i propri rami che possono raggiungere anche i due metri di lunghezza. Per questo, nei cappereti, terreni dove si coltivano i capperi, le piante sono disposte ad una certa distanza l’una dall’altra. Da Maggio a Settembre si raccolgono i boccioli del cappero che opportunatamente trattati con sale marino arrivano nelle nostre tavole Sia il Ministero Italiano delle Risorse Alimentari con decreto 2 Dicembre 1993, sia l’Unione Europea con reg.CE N.1107/96, hanno riconosciuto la superiore qualità del cappero di Pantelleria con la I.G.P

🚩|| 𝐑𝐀𝐃𝐈𝐎 ® 𝐏𝐀𝐍𝐓𝐄𝐋𝐋𝐄𝐑𝐈𝐀 || 🚩 “Pillole di Storia della Perla Nera del Mediterraneo”

In un piccolo fazzoletto di terra, troviamo un pò di tutto, grotte e faglie, sorgenti termali e favare (emissioni naturali di vapore acqueo), altipiani e laghi vulcanici. L’isola è varia ma soprattutto bella. Di una bellezza che ti conquista subito per via di queste rocce scure che si nascondono dentro al verde, per via della vegetazione che il vento mantiene bassa, per le costruzioni ancora discrete (e speriamo che si mantengano tali) che punteggiano il paesaggio senza stravolgerlo, caratterizzate dalle cupolette bianche di calce: i dammusi. Amiamo quest’isola per via delle sue vigne. Senza pali, senza fili, senza spalliere, la vigna di Pantelleria è vigna primordiale, sembrerebbe quasi selvaggia e spontanea se questi alberelli, che appena spuntano dalla loro fossa interrata, non fossero così regolari. Ciuffi di foglie protetti dal terreno sabbioso rendono il paesaggio unico. L’altopiano di Mueggen è il miglior esempio del genere, un gigantesco “orto” di viti, arato non dagli animali o dagli attrezzi ma dalla mano dell’uomo che nei secoli ha disegnato con il sudore e il lavoro le migliaia di chilometri di questi muretti a secco, dei terrazzamenti, le curve e le pieghe di questo incantevole paesaggio. La mancanza di sorgenti e le cisterne per conservare l’acqua piovana Il vino è da sempre protagonista dell’isola, ma i veri problemi sono sempre venuti dall’acqua. A risolverli con incredibile sagacia sono state le diverse civiltà che si sono succedute nell’isola, prima fra tutte i fenici. Il loro sistema di cisterne e canalizzazioni per raccogliere, non disperdere e conservare l’acqua piovana, non solo è mirabile, ma estremamente efficiente. I fenici hanno disseminato l’isola di centinaia di cisterne vetrificate con pasta di cocci e ossidiana. Un sistema che ha permesso la sopravvivenza della popolazione, il diffondersi dell’agricoltura e che funziona perfettamente anche oggi. Negli ultimi decenni la tecnologia è venuta incontro al problema e l’impianto di desalinizzazione dell’acqua marina rappresenta certo uno dei più significativi cambiamenti alla vita dell’isola, permettendo una forte presenza di turismo estivo senza troppi problemi, ma le cisterne funzionano ancora e in alcune zone più remote dell’isola sono sempre loro il cardine essenziale per mantenere vivo il tessuto agricolo originale. Isola di agricoltori Un’isola dove al mare si preferisce la terra, dove la strada perimetrale passa in genere alta e lontana dalla costa, e i pochi (e brutti in genere) alberghi, salvo poche eccezioni sono nei centri abitati o a mezza costa. Qui ancora i dammusi si disperdono nel verde e raramente arrivano a mare, e l’agricoltura rimane più importante della pesca. Uno dei piatti più amati è il coniglio e soprattutto le mille verdure che gli orti offrono nelle varie stagioni. Verdure che per la poca acqua crescono a fatica, ma sono cariche di sole e sapore. Provate i piatti tipici, ma non tanto i crostacei e la cernia (peraltro squisita) , ma il coniglio, e meglio ancora la “sciakisciuka” un misto caldo di verdure cotte al forno, il “cucurumma” a base di zucchine e così via. La materia prima degli utensili da lavoro per millenni L’Ossidiana ha fatto per millenni la fortuna di Pantelleria. Roccia dura a spigoli vivi, nera e spesso translucida, è stata la materia prima degli utensili di lavoro per millenni. Oggi queste pietre segnano per migliaia di chilometri i campi, ne definiscono i percorsi e i confini, le migliaia di appezzamenti. La proprietà è frazionata al massimo, ogni contadino ha il suo orto, il suo vino, nato come alimento per le stagioni fredde. I SESI Le mani dell’uomo piccole ma grandi nello stesso tempo perchè capaci, se guidate dalla creatività, di monumentali gioielli. A testimonianza nell’isola di Pantelleria ci sono dei monumenti funebri chiamati SESI che architettonicamente hanno molto in comune con i Nuraghi sardi e risalgono circa al 5000 A.C. Essi sfidano lo scorrere dei secoli, indicando all’uomo di oggi, quasi a monito, l’abilità edilizia nonchè le capacità intellettive del primo insediamento umano a Pantelleria. Da dove venisse il popolo preistorico, autore di tali costruzioni, non si sa; si possono fare delle supposizioni e pertanto risultano diversi i pareri degli studiosi. Che fossero Fenici o Pelegi – Tirreni come riteneva l’Arciprete D’Aietti o Siculi secondo la tesi del Dott. Rosario Salvo di Pietra Gansili o infine Iberici ha un’importanza relativa. Significativo è il fatto che questo popolo si stanziò nell’Isola, attratto certo dall’ossidiana “la preziosa roccia con cui si confezionavano nel neolitico le armi più eccellenti e i più eccellenti strumenti di taglio” e si rilevarono provetti maestri nell’arte della muratura come lo attestano i Sesi. Monumento di forma ellittica, alto quasi sei metri, il Sese del Re ha tre ripiani a differenti altezze e s’innalza in una plana desertica, costellata di magma che, pietrificandosi, prese nella notte dei tempi, forme che danno alimento alla fantasia del visitatore. La tecnica di muratura è a “casciata” e tali costruzioni a cupola o a tronco di cono presentano delle aperture esterne rettangolari che permettono di penetrare a carponi attraverso un corridoio nelle celle. Il Sese del Re, ha dodici celle più docici corridoi ed undici ingressi; si suppone che dovette essere il sepolcro del capo dei Sesioti. L’Orsi parla di ben cinquantasette Sesi, escludendo quelli distrutti dall’uomo. Ogni Sese ha un numero di ingressi che vanno da due ad undici; la loro altezza non supera un metro, i corridoi sono stretti e lunghi circa sette metri conducono nelle rispettive celle rotonde le cui dimensioni variano anche nello stesso Sese. In ogni cella veniva adagiato il defunto rannicchiato e con il capo verso occidente. Il Sese catalogato dall’Orsi al numero trentuno “…aveva il suo deposito intatto”, un solo scheletro adagiato, gli arti rattratti, col cranio a ponente ed i piedi verso lo sbocco della galleria…” Il lento scorrere dei secoli non ha deturpato la bellezza di questi capolavori, unici al mondo, che inculcano un senso di religiosità. In anni recenti (1997-2008) le ricerche di Fabrizio Nicoletti e Sebastiano Tusa hanno permesso di individuare nuovi Sesi, due dei quali hanno per la prima volta restituito deposizioni funerarie integre. Nell’abitato di MURSIA sono

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