In un piccolo fazzoletto di terra, troviamo un pò di tutto, grotte e faglie, sorgenti termali e favare (emissioni naturali di vapore acqueo), altipiani e laghi vulcanici. L’isola è varia ma soprattutto bella. Di una bellezza che ti conquista subito per via di queste rocce scure che si nascondono dentro al verde, per via della vegetazione che il vento mantiene bassa, per le costruzioni ancora discrete (e speriamo che si mantengano tali) che punteggiano il paesaggio senza stravolgerlo, caratterizzate dalle cupolette bianche di calce: i dammusi.
Amiamo quest’isola per via delle sue vigne. Senza pali, senza fili, senza spalliere, la vigna di Pantelleria è vigna primordiale, sembrerebbe quasi selvaggia e spontanea se questi alberelli, che appena spuntano dalla loro fossa interrata, non fossero così regolari. Ciuffi di foglie protetti dal terreno sabbioso rendono il paesaggio unico.
L’altopiano di Mueggen è il miglior esempio del genere, un gigantesco “orto” di viti, arato non dagli animali o dagli attrezzi ma dalla mano dell’uomo che nei secoli ha disegnato con il sudore e il lavoro le migliaia di chilometri di questi muretti a secco, dei terrazzamenti, le curve e le pieghe di questo incantevole paesaggio.
La mancanza di sorgenti e le cisterne per conservare l’acqua piovana
Il vino è da sempre protagonista dell’isola, ma i veri problemi sono sempre venuti dall’acqua. A risolverli con incredibile sagacia sono state le diverse civiltà che si sono succedute nell’isola, prima fra tutte i fenici. Il loro sistema di cisterne e canalizzazioni per raccogliere, non disperdere e conservare l’acqua piovana, non solo è mirabile, ma estremamente efficiente.
I fenici hanno disseminato l’isola di centinaia di cisterne vetrificate con pasta di cocci e ossidiana. Un sistema che ha permesso la sopravvivenza della popolazione, il diffondersi dell’agricoltura e che funziona perfettamente anche oggi.
Negli ultimi decenni la tecnologia è venuta incontro al problema e l’impianto di desalinizzazione dell’acqua marina rappresenta certo uno dei più significativi cambiamenti alla vita dell’isola, permettendo una forte presenza di turismo estivo senza troppi problemi, ma le cisterne funzionano ancora e in alcune zone più remote dell’isola sono sempre loro il cardine essenziale per mantenere vivo il tessuto agricolo originale.
Isola di agricoltori
Un’isola dove al mare si preferisce la terra, dove la strada perimetrale passa in genere alta e lontana dalla costa, e i pochi (e brutti in genere) alberghi, salvo poche eccezioni sono nei centri abitati o a mezza costa.
Qui ancora i dammusi si disperdono nel verde e raramente arrivano a mare, e l’agricoltura rimane più importante della pesca.
Uno dei piatti più amati è il coniglio e soprattutto le mille verdure che gli orti offrono nelle varie stagioni. Verdure che per la poca acqua crescono a fatica, ma sono cariche di sole e sapore. Provate i piatti tipici, ma non tanto i crostacei e la cernia (peraltro squisita) , ma il coniglio, e meglio ancora la “sciakisciuka” un misto caldo di verdure cotte al forno, il “cucurumma” a base di zucchine e così via.
La materia prima degli utensili da lavoro per millenni
L’Ossidiana ha fatto per millenni la fortuna di Pantelleria. Roccia dura a spigoli vivi, nera e spesso translucida, è stata la materia prima degli utensili di lavoro per millenni.
Oggi queste pietre segnano per migliaia di chilometri i campi, ne definiscono i percorsi e i confini, le migliaia di appezzamenti. La proprietà è frazionata al massimo, ogni contadino ha il suo orto, il suo vino, nato come alimento per le stagioni fredde.
I SESI
Le mani dell’uomo piccole ma grandi nello stesso tempo perchè capaci, se guidate dalla creatività, di monumentali gioielli. A testimonianza nell’isola di Pantelleria ci sono dei monumenti funebri chiamati SESI che architettonicamente hanno molto in comune con i Nuraghi sardi e risalgono circa al 5000 A.C. Essi sfidano lo scorrere dei secoli, indicando all’uomo di oggi, quasi a monito, l’abilità edilizia nonchè le capacità intellettive del primo insediamento umano a Pantelleria.
Da dove venisse il popolo preistorico, autore di tali costruzioni, non si sa; si possono fare delle supposizioni e pertanto risultano diversi i pareri degli studiosi.
Che fossero Fenici o Pelegi – Tirreni come riteneva l’Arciprete D’Aietti o Siculi secondo la tesi del Dott. Rosario Salvo di Pietra Gansili o infine Iberici ha un’importanza relativa. Significativo è il fatto che questo popolo si stanziò nell’Isola, attratto certo dall’ossidiana “la preziosa roccia con cui si confezionavano nel neolitico le armi più eccellenti e i più eccellenti strumenti di taglio” e si rilevarono provetti maestri nell’arte della muratura come lo attestano i Sesi.
Monumento di forma ellittica, alto quasi sei metri, il Sese del Re ha tre ripiani a differenti altezze e s’innalza in una plana desertica, costellata di magma che, pietrificandosi, prese nella notte dei tempi, forme che danno alimento alla fantasia del visitatore.
La tecnica di muratura è a “casciata” e tali costruzioni a cupola o a tronco di cono presentano delle aperture esterne rettangolari che permettono di penetrare a carponi attraverso un corridoio nelle celle.
Il Sese del Re, ha dodici celle più docici corridoi ed undici ingressi; si suppone che dovette essere il sepolcro del capo dei Sesioti.
L’Orsi parla di ben cinquantasette Sesi, escludendo quelli distrutti dall’uomo. Ogni Sese ha un numero di ingressi che vanno da due ad undici; la loro altezza non supera un metro, i corridoi sono stretti e lunghi circa sette metri conducono nelle rispettive celle rotonde le cui dimensioni variano anche nello stesso Sese. In ogni cella veniva adagiato il defunto rannicchiato e con il capo verso occidente.
Il Sese catalogato dall’Orsi al numero trentuno “…aveva il suo deposito intatto”, un solo scheletro adagiato, gli arti rattratti, col cranio a ponente ed i piedi verso lo sbocco della galleria…”
Il lento scorrere dei secoli non ha deturpato la bellezza di questi capolavori, unici al mondo, che inculcano un senso di religiosità.
In anni recenti (1997-2008) le ricerche di Fabrizio Nicoletti e Sebastiano Tusa hanno permesso di individuare nuovi Sesi, due dei quali hanno per la prima volta restituito deposizioni funerarie integre.
Nell’abitato di MURSIA sono state rinvenute numerose capanne ovali seminterrate ed accostate tra loro pertinenti una prima fase dell’insediamento. In una seconda fase le capanne diventano rotonde o irregolarmente quadrangolari e più piccole: In una terza fase alle capanne preesistenti si addossano piccoli vani quadrangolari. Si nota, pertanto, un’evoluzione architettonico-urbanistica che permette successivamente l’edificazione di edifici costituiti da più vani unitariamente costruiti. Una pianta complessa che si giustifica soltanto in un contesto culturale complesso che ha avuto stimoli evolutivi basati su necessità socio-economiche più avanzate.
Il Villaggio di Cimillia
A poca distanza della città dei morti, quella dei vivi protetta dalla cinta muraria. Il muro alto, come fu definito il muro di cinta del villaggio di Cimilla – Cala dell’Alga è una fortificazione, di cui ci rimane il lato orientale della lunghezza di duecento metri. E’ un’opera meravigliosa che desta stupore dato che i Sesioti non avevano a disposizione attrezzatura adeguata.
Testimonianze delle capacità nell’arte muraria
Anche i Fenici lasciarono non poche testimonianze delle loro capacità nell’arte muraria e nella scultura. A testimonianza le cisterne, il resto del monumentale muro di cinta dell’acropoli, la stele di Rekhale. Quest’ultima è una scultura di trachite, pietra locale. Era probabilmente sistemata in uno dei tanti santuari Fenici siti lontano dall’abitato e si ritiene che le due figure umane rappresentino due divinità di sesso differente. Negli occhi della donna sono incastonate due scaglie di ossidiana levigata che mancano in quelli dell’uomo. Allo stato attuale la stele è collocata sul tetto dell’abitazione della Sig.ra Costa Angela Sanguedolce, sita prima della chiesetta di San Giuseppe a Rekhale.
Il Castello Barbacane
Stupenda testimonianza di architettura robusta la mole imponente del Castello Barbacane, un secolo fa circondato dalle acque e dotato di un ponte levatoio, sfida i secoli con le sue pietre squadrate che a giudizio del notaio D’Aietti costituivano la fortificazione Cossyrese a mare. La parte centrale di forma pentagonale è il primo nucleo e risale al periodo della dominazione Bizantina a Pantelleria.
Un ampliamento avvenne durante la dominazione Normanna nel lato sud e pertanto la parte posteriore prese la forma di un rettangolo e l’intero edificio di un trapezio incastrato in un rettangolo. E’ impossibile stabilire quando al Castello fu congiunta la torre di S. Barnaba sita ad est come è impossibile parlare di modifiche o ampliamenti verificatesi con i molti popoli che si succedettero ai Normanni. Se però si osservano le volte delle stanze, degli archi, degli androni, delle scale, si rileva lo stile Spagnolo.
Non è certo se durante la dominazione Spagnola si sia avuto un altro ampliamento del Castello ad ovest: un bastione molto più basso con degli smerli. Accanto ad esso sorgevano due torri a sentinelle di protezione e facevano parte del Castello della città murata. Le torri vennero demolite dopo la seconda guerra mondiale per dar posto alla banchina.
Infine nel 1774 su ordine di Ferdinando IV di Borbone fu costruita la torretta dell’orologio.
L’ingresso del Castello presenta un arco dall’architettura Arabo Normanna, sovrastante a questo arco un arco a tutto sesto. L’interno consta di 66 vani disposti su 3 elevazioni. Tutti gli ambienti hanno la volta a botte e su alcune porte vi sono delle lapidi con incisioni spagnole, purtroppo non decifrabili.
Ristrutturato di recente, nel periodo estivo, è aperto al pubblico e in esso si svolgono mostre e conferenze. Alcuni vani saranno adibiti a museo.
La Stufa di Kazen
Opera di ingegneria civile è la stufa di Kazen (U vagnu sciuttu), dono della natura per l’emanazione dei vapori che la mano dell’uomo li imprigionò costruendo con muri a secco due camere sotterranee di diversa architettura.
La prima è simile a quella delle cisterne cossyresi, la seconda ha la forma di una sfera coperta da cocci squadrati e ben rifiniti disposti in filari e terminanti quasi al centro della volta chiusa da una pietra rotonda, composta da due semicerchi combacianti, facili da spostare per regolare la temperatura dell’ambiente.
Tenuto presente che l’uomo che costruì il calidario (stufa) aveva a disposizione strumenti di metallo come ce lo dimostrano le pietre della stanza sferica, che l’arco d’ingresso dal vestibolo al calidario è ricavato con la scavo della pietra dell’architrave e che la volta è ottenuta con il sistema dei massi aggettanti, si può attribuire l’opera ai Fenici (VII secolo A.C.)
Il Dammuso
Il dammuso è il fiore all’occhiello del rapporto pietra-uomo.
Le sue origini sono da ricercare nel periodo della dominazione Araba sull’Isola di Pantelleria (VI – VII secolo D.C.).
La stessa etimologia evidenzia la paternità araba di tale costruzione a cupola. Difatti il verbo “mdamnes” significa in arabo costruire a volta ed in pantesco “ndammusare” ha lo stesso significato.
Secondo alcuni studiosi la nascita del dammuso è da registrare nel periodo della decadenza dell’antica Cossyra e l’etimologia della parola ce lo afferma, in quanto dammuso deriva dal latino “domus”, modificato in “dammus” dagli arabi. Sia nell’uno che nell’altro caso il significato non cambia in quanto indica la casa, l’abitazione.